Il merito di un (bravo) allenatore sta nel crederci sempre, prima ( e oltre) lo stesso atleta.
Fabrizio Antonelli lo ha sempre fatto. Anche nei giorni più duri di giugno, quando il suo Gregorio si è ritrovato in una palude, mentre era sulla cresta dell’onda.
Gli è stato accanto, ha ascoltato il corpo del suo atleta, ha cambiato strategie e metodologie, ha rischiato. Ha dovuto modificare la rotta per affrontare il mare mosso mentre la sua Ferrari viaggiava spedita e nessuna onda sembrava poterla rovesciare.
Il cambio di programma sull'altura, i km di allenamento necessariamente ridotti, l’intensità da rivedere a tre settimane da Tokyo. Non è stato facile, «non sappiamo come andrà» aveva detto prima della partenza della 10 km, assicurando però che Paltrinieri avrebbe dato il massimo.
Perché è quello che in questo anno Antonelli ha sempre cercato di ricavare dai suoi ragazzi, riuscendoci alla grande.
Li ha «ammazzati» di fatica («Lo scarico? Non esiste, lo scarico è la gara», ha detto sornione ai nostri microfoni al Sette Colli) e li ha resi felici. Non è un contraddizione, è il binomio perfetto alla base di un gruppo solido e affiatato che Antonelli è stato capace di costruire e soprattutto motivare.
Facendo passare i suoi ragazzi dal mare alla piscina con una naturalezza incredibile. Come se fosse facile entrare in vasca con gli stivali ancora sporchi di fango. Come se fosse facile motivare un atleta che stava annaspando per una mononucleosi.
Che si è ritrovato all’improvviso nel mare profondo, dove si vede tutto nero. Come se fosse facile guidare da un anno la Ferrari Paltrinieri che era stata costruita in altri box e aveva ottenuto già tanto.
Ha vinto Antonelli, hanno vinto l’umiltà, la pazienza, il coraggio di rischiare.
La bravura nel dare fiducia al proprio atleta anche quando sembra che tutto debba colare a picco.
La capacità di non (far) mollare mai, anche quando la fatica ti fa vedere le stelline.
Che siano benedetti questi allenatori, che siano benedetti.
Patrizia Nettis per Swimbiz.it