“Papà, m’insegni a nuotare?”. Inizia così un lungo articolo pubblicato lo scorso 4 agosto sul sito di ‘The Guardian’. Lo chiede una bambina di 10 anni, il padre non sa cosa rispondere. Non ha mai avuto l’opportunità d’imparare. In Alabama, infatti, le piscine sono state uno dei luoghi simbolo della segregazione. L’accesso agli afroamericani fu ridotto al lumicino, spesso negato del tutto e fu ferocemente vietata ogni forma di contatto tra ragazzi neri e ragazze bianche. Ancora oggi c’è chi conserva (o vende su e-bay) i cartelli “Solo bianchi” o “Qui serviamo i neri” esposti all’ingresso delle piscine di Selma, città da cui partì la prima marcia di Martin Luther King. Quello americano non è un caso unico nella storia. Saul Friedländer, Premio Pulitzer nel 2008, ricorda che ancor prima delle leggi razziali, nella Germania nazista, a Dortmund fu vietato agli ebrei l’ingresso nelle piscine pubbliche. E con l’avvento delle leggi antiebraiche in Italia, non mancarono episodi di espulsioni dagli impianti. Ma quelle piscine che negli Stati Uniti simboleggiavano una divisione, divenneroteatro della lotta per i diritti civili. Il movimento St. Augustine in Florida – poi affiliato al gruppo del Dr. King – iniziò la sua attività di protesta proprio dalle piscine pubbliche. I sit-in divennero swim-in. L’apice delle tensioni con i segregazionisti fu quando alcuni attivisti si tuffarono nella vasca privata, interdetta agli afroamericani, dell’hotel Monson Motor Lodge. Il proprietario rispose gettando acido muriatico nell’acqua, ma fu colto sul fatto da un giornalista e quelle fotografie fecero il giro del mondo. Oggi l’America festeggia il Martin Luther King’s Day, e i suoi discendenti organizzano il “Dr. Martin Luther King Jr. Swim Classic”, un meeting per promuovere il nuoto tra minoranze come afroamericani e ispanici. Non solo come attività sportiva – con la crescita di popolarità del nuoto, aumentano nuotatori e top swimmers di colore(leggi qui) – ma soprattutto per ragioni di sicurezza. Nel 2013 la Fina, il Cio, l’Unesco, l’Oms e l’Unicef ricordavano che l’annegamento è la quarta causa di mortalità al mondo, specie tra gli immigrati provenienti da Paesi in cui risultino assenti programmi di ‘alfabetizzazione acquatica’.