Quando Janet Evans passò la torcia olimpica a Muhammad Ali “Allora capii il valore di un atleta olimpico”

Copyright foto: Nbc

“Mi scusi, ma i nuotatori non vanno alla cerimonia d’apertura olimpica. Così disse Janet Evans – come la squadra australiana di nuoto quest’anno(leggi qui) - quando l’uomo che convinse l’International Olympic Committee a portare, nel 1996, le Olimpiadi ad Atlanta, le chiese di portare la torcia olimpica. E senza le polemiche sorte in Italia, quattro anni fa, quando Federica Pellegrini pronunciò una frase simile(leggi qui). Evans che si apprestava la sua terza Olimpiade, dopo quattro ori olimpici in due edizioni, unica americana prima di Katie Ledecky a detenere contemporaneamente i record mondiali di 400, 800 e 1500 m stile libero. Non aveva mai vissuto lo spirito olimpico, confessa alla Nbc: mangiava sempre con le americane, senza mischiarsi con gli stranieri né gli altri sport. Ancora titubante, fu alla fine convinta a portare la torcia. Ancora non sapeva a chi l’avrebbe dovuta passare.

Boxe subacquea per Muhammad Ali

Da stamattina, su giornali, siti e tv italiane scorrono le immagini di Cassius Clay, meglio noto come Muhammad Ali, venuto a mancare ieri notte a 74 anni. Leggenda della boxe, personaggio oltre. Per le sue parole, per le sue idee, perché afro-americano e di fede musulmana in quel momento storico degli Stati Uniti e del mondo. “Come potrò mai 'passare' la torcia a the greatest’, il più grande di tutti?” si chiese la Evans, quando le diedero la notizia. Iniziò a montare il nervosismo, come prima di una gara. Iniziò ad allenarsi a correre, per non cadere, per non fare brutte figure. Quando arrivò il giorno, si guardò intorno “Vedevo gli americani, sì, ma vedevo anche sportivi di tutto il mondo: giocatori di ping-pong della Mongolia, schermidori della Tunisia, atleti che non vedi mai sulla Nbc… Guardavo i loro occhi, l’entusiasmo di partecipare a qualcosa che unisce il mondo – e poi vide Ali – il suo coraggio, la sua determinazione a essere lì, ispirando i giovani di tutto il mondo. E la dignità di un uomo che, nonostante il morbo di Parkinson, non aveva paura di mostrarsi al mondo e afferrarne il simbolo. E in quel momento, alla sua terza Olimpiade Jane Evans realizzò “Cosa significa essere atleti olimpici. Non ho mi pianto di gioia per una medaglia. Ma in quel momento, volevo piangere”.

moscarella@swimbiz.it

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